A circa tre ore di auto a sud di Delhi nello stato federato dell’Uttar Pradesh si incontra Vrindavan, città consacrata al dio Krishna che qui, secondo la tradizione, trascorse la sua infanzia. Si dice che a volte di primo mattino si possa scorgere il dio che si bagna nel fiume Yamuna e che si possa anche udire il suono del suo flauto. Per molti induisti questa città, come Varanasi, rappresenta il luogo più sacro per concludere la propria vita terrena.

Vrindavan viene anche chiamata la “città delle vedove”. Sono diverse migliaia le donne vedove che nella più assoluta povertà prestano servizio presso uno dei tanti ashram (luoghi di preghiera e meditazione) in cambio di poche rupie e un po’ di riso che garantisce loro la sopravvivenza.

Perché così tante? La condizione di vedova per una donna induista non è ancora facile nell’India più tradizionalista. Si tratta di una vera e propria “emarginazione sociale”. Spesso chi perde il marito subisce l’abbandono familiare e si vede costretta a cercare un luogo dove in qualche modo continuare a vivere. La maggior parte delle volte la destinazione di questo vero e proprio pellegrinaggio è una città santa, come Vindravan appunto.

Scrive William Dalrymple nel suo libro “In India” (The Age of Kali): “Si notano appena si arriva a Vindravan, ricurve e con un sari bianco, le teste rasate e i piattini per le elemosine protese verso i passanti. Sulla fronte portano il simbolo a forma di diapason disegnato con la cenere che le indica come discepole di Krishna (…). Nella società tradizionale indù la donna perde il suo status quando le muore il marito e di conseguenza le viene proibito di indossare vesti colorate, gioielli, di mangiare carne e di possedere beni”. Addirittura, viene considerata portatrice di sfortuna se non la causa occulta della disgrazia stessa.

Certo non è più l’epoca della “sati”, l’immolazione della vedova sulla stessa pira del marito defunto, ma spesso l’orizzonte futuro di queste donne mostra solo sofferenza ed estrema indigenza.

Nel libro “Living Death: trauma of widowhood in India (Vivendo la morte: il trauma della vedovanza in India)” di Mohini Giri, storica attivista indiana in campo sociale, si legge: “L’India è Paese di città sante come Varanasi, Tirupati, Vrindavan con decine di migliaia di monaci e dee e ciò nonostante persiste una discriminazione socio culturale senza precedenti contro le vedove. La stessa società denigra una donna mentre la pone al tempo stesso sopra un piedestallo all’interno di un tempio.”
Le vedove che passano il giorno e la notte nel più grande ashram di Vrindavan, lo Shri Bhagwan Bhajan, o in altri luoghi di preghiera e meditazione, indossano un sari bianco. Nella tradizione orientale, il bianco (e non il nero come in Occidente) è il colore della morte che le vedove qui attendono con pazienza e rassegnazione, pregando, cantando e danzando antichissimi rituali liturgici in faticosi turni che durano diverse ore.

Si dice sempre che l’India è luogo delle più stridenti contraddizioni; a questo proposito mi piace molto la citazione che ben esprime questo concetto:

“L’India è uno Stato con i piedi nella tradizione e la testa nel mondo che verrà”.